PNRR e riforme del mercato del lavoro. Il bilancio per l’Italia (e per l’Europa)


La Corte dei Conti europea ha reso note le valutazioni relative all’utilizzo dei fondi europei nel periodo febbraio 2020-giugno 2024, conseguenti ai piani nazionali per la ripresa e la resilienza presentati dai singoli Stati membri. Il bilancio per l’Italia (e per la gran parte dei Paesi europei) è solo in parte positivo: sul piano delle riforme del mercato del lavoro sono stati conseguiti alcuni risultati, ma non “sufficienti a ovviare ai problemi strutturali”. Ma qualcosa di positivo per l’Italia c’è sia sul piano degli interventi di carattere assistenziale e delle politiche attive del lavoro, sia per i progressi raggiunti nell’ambito della riforma dei servizi di vigilanza e delle azioni di contrasto al lavoro sommerso.

In occasione della pandemia di Covid-19, l’Unione europea ha varato una politica di sostegno alle economie dei singoli Stati membri (oramai, 27 dopo l’uscita del Regno Unito), innanzitutto, al fine di garantire continuità di reddito nel periodo di quarantena, ma altresì per dare slancio alle economie nazionali, quando fosse finita la condizione di isolamento forzato degli individui e delle famiglie, conseguente alla quarantena.

In particolare, con il Dispositivo per la ripresa e la resilienza (Recovery and Resilience Facility: in acronimo, RRF) l’Unione ha messo a disposizione dei singoli Stati membri una dotazione di 650 miliardi di euro, di cui 359 miliardi di euro per sovvenzioni e 291 miliardi di euro per prestiti.

Per ricevere i finanziamenti dell’UE, gli Stati membri hanno dovuto presentare alle istituzioni europee un proprio piano nazionale (PNRR), impegnandosi ad attuare una serie di investimenti e riforme normative, comprese quelle nell’ambito del lavoro e dell’occupazione.

In questo modo, per la prima volta l’UE ha stabilito un collegamento diretto tra i finanziamenti a favore degli Stati membri e le politiche economiche e sociali che ognuno di essi era libero di adottare nell’ambito delle proprie competenze. Non si è trattato di una modifica dei ruoli, perché gli Stati membri hanno mantenuto le loro prerogative, tuttavia, poiché i singoli piani nazionali sono stati valutati ed approvati in sede europea, all’esito di una complessa sequenza procedurale volta a promuovere il dialogo fra stati e istituzioni centrali, si è necessariamente realizzato (sulla base delle previsioni degli artt. 121 e 148 TFUE) un innovativo coordinamento fra tutte le politiche di sviluppo dei singoli Stati membri, che culmina in una serie di decisioni “di esecuzione” del Consiglio europeo.
Poiché, dunque, l’RRF – Dispositivo per la ripresa e la resilienza – è attuato in regime a gestione diretta, la Commissione europea ha assunto la responsabilità dell’attuazione dei singoli piani nazionali (PNRR), dando così vita ad un monitoraggio che si articola sia nella formulazione di raccomandazioni (RSP) specifiche per paese (a loro volta articolate in sotto-raccomandazioni – SRSP), sia nella valutazione dei risultati raggiunti, sulla scorta di quanto stabilito dal Regolamento (UE) 2021/241 e in maniera non troppo diversa da quanto avviene in altri organismi internazionali.

Ed invero, le politiche del mercato del lavoro e dell’occupazione rappresentano un settore chiave, a cui sono riservate le linee di finanziamento intitolate alla “coesione sociale e territoriale”, mirando ad incentivare la creazione di posti di lavoro di alta qualità, sulla base del “pilastro europeo dei diritti sociali”, concordemente definito dagli Stati Membri, al termine della presidenza Junker.

Utilizzando fondi europei, i Piani Nazionali per la Ripresa e la Resilienza (e fra questi anche quello italiano) sono assoggettati anche ad un controllo a posteriori demandato alla Corte dei Conti dell’Unione europea, che, non diversamente da quella italiana (art. 100/II Cost.), è chiamata a «controllare la legittimità e la regolarità delle entrate e delle spese e ad accertare la sana gestione finanziaria» dell’Unione europea (art. 287.2 TFUE).

Secondo l’indagine condotta dai funzionari della Corte, che oltre ai documenti ufficiali hanno anche provveduto a intervistare direttamente tanti esponenti delle economie nazionali e delle categorie produttive, le riforme attuate grazie ai fondi del Dispositivo di ripresa e resilienza hanno conseguito alcuni risultati, ma non hanno attuato, o hanno attuato solo marginalmente, almeno la metà delle raccomandazioni formulate dal Consiglio europeo. In alcuni Paesi, non sono state affrontate sfide strutturali particolarmente importanti per i cittadini dell’UE, come ad esempio l’integrazione dei gruppi vulnerabili nel mercato del lavoro o lo spostamento della pressione fiscale dal lavoro ad altre fonti di entrate.

Prima di riferire dei risultati che riguardano l’Italia, si deve però avvertire che il coordinamento attuato mediante il meccanismo che si è sin qui descritto solo in parte fa registrare una convergenza, poiché i progetti da finanziare sono stati liberamente scelti da ognuno dai singoli Stati al momento in cui si sono state presentate le iniziative da finanziare.

In questo senso, quando la relazione della Corte dei Conti europea -esaminando i risultati di Danimarca, Irlanda, Ungheria, Slovacchia – riferisce che nessuna riforma in questi paesi affronta le sotto-raccomandazioni europee relative al mercato del lavoro, non viene affatto a parificare la situazione dei quattro Stati, perché i motivi per cui le indicazioni europee sono state disattese possono essere i più vari: per es. l’Ungheria sta facendo rilevare un’evidente volontà di non conformarsi alle indicazioni che provengono dalle istituzioni comuni, mentre, al contrario, Irlanda e Danimarca hanno completamente ignorato il tema nei loro PNRR perché non hanno richiesto alcun finanziamento in quell’ambito, ritenendo a tutt’evidenza che la propria attuale situazione occupazionale sia superiore agli standard medi e, quindi, non richieda né correttivi, né finanziamenti europei (vedi Relazione della Corte dei Conti europea, par. n. 28).

Nello stesso senso, si deve tener conto che alcuni Paesi (in particolare, la Spagna) hanno presentato quasi quaranta progetti di innovazione da finanziare con fondi europei, mentre altri (e fra questi l’Italia) hanno privilegiato settori diversi rispetto al mercato del lavoro per formulare le proprie richieste (o ne hanno comunque avanzato in numero minore, rispetto alla media dei singoli Stati membri).

Quanto all’Italia, si deve dire subito che la valutazione (che interessa il periodo che va dal febbraio 2020 al giugno 2024) è complessivamente nella media, e non appare né buona, né cattiva: infatti, la Corte dei Conti afferma che per tutte le 6 aree di intervento interessate si sono registrati solo “alcuni progressi” e ritiene che le riforme collegate alla richiesta di finanziamento europeo “affrontano marginalmente le sotto-raccomandazioni della Commissione europea relative al mercato del lavoro”. Più positivi, invece, sono stati i risultati raggiunti dall’Italia nella fase (oramai esaurita da tempo) di diretto contrasto alla pandemia, tanto che l’Italia è stata in quel periodo uno dei pochi paesi in cui, grazie ai sostegni varati dal Parlamento (e al blocco dei licenziamenti), non si è registrato alcun rilevante incremento della disoccupazione.

Le 6 aree oggetto di valutazione per l’Italia hanno riguardato i seguenti obiettivi: (i) contrastare il lavoro sommerso; (ii) coinvolgere in particolare i giovani e i gruppi vulnerabili nelle politiche attive del mercato del lavoro e nelle politiche sociali; (iii) sostenere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro anche attraverso l’accesso a servizi di assistenza all’infanzia e a lungo termine di qualità; (iv) fornire redditi sostitutivi e un accesso al sistema di protezione sociale adeguati, in particolare per i lavoratori atipici; (v) attenuare l’impatto della crisi sull’occupazione, anche potenziando le modalità di lavoro flessibili; (vi) assicurare un sostegno attivo all’occupazione.

Secondo la Corte dei Conti europea, dunque, l’attuazione dei piani è stata solo parziale, né può dirsi se questi (ambiziosi) obiettivi verranno effettivamente alla fine raggiunti. Si può aggiungere, però, che la valutazione positiva riguarda riforme italiane che hanno riguardato materie in certo modo ai margini delle politiche sociali (come la riforma degli istituti tecnici e della formazione professionale); mentre, sul piano degli interventi di carattere assistenziale e delle politiche attive del lavoro, l’Italia ha puntato molto sui progressi raggiunti nell’ambito della riforma dei servizi di vigilanza e sulle azioni di contrasto al lavoro sommerso.

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