Per una vera democrazia economica serve un capitalismo imprenditoriale civile


Lo scorso 26 maggio è stata approvata la legge su “Partecipazione dei lavoratori alla gestione, al capitale e agli utili delle imprese”, che prevede una serie norme per favorire la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese. Il provvedimento non ha attivato un largo dibattito, eppure il tema della democrazia economica è al centro dei sistemi capitalistici.

Storicamente questo termine è stato considerato un modo per rendere le decisioni sulla distribuzione dei redditi più vicine alle istanze del lavoro rispetto a quelle dell’impresa. Del resto negli ultimi anni, anche per effetto della forte inflazione del 2022 e 2023, c’è stato uno spostamento dei redditi dai salari ai profitti. A partire dal 2020 il tasso di profitto delle imprese è costantemente aumentato, mentre (per la perdita di potere di acquisto) le retribuzioni reali si sono contratte, anche se nel 2024 si è registrata una inversione di tendenza.

Ma la democrazia economica non si esaurisce solo nella partecipazione alle decisioni dell’impresa, riguarda le forme costitutive di un sistema democratico e le interazioni tra mondo dell’impresa e sistema del lavoro, ossia le modalità attraverso le quali si organizzano i sistemi di produzione e i rapporti sociali e quindi, in sintesi, si struttura il sistema capitalistico.

Se cambiamo punto di vista, e partiamo da quello dell’impresa, il riferimento è l’articolo 41 della Costituzione Repubblicana che sancisce la libertà di iniziativa economica privata stabilendo che non può esercitarsi in contrasto con “l’utilità sociale e la dignità umana”. Si tratta di una posizione di estremo equilibrio, sintesi tra le sensibilità cattoliche, social-comuniste e liberali-repubblicane presenti nell’Assemblea costituente. E che pone la questione dei pilastri di una democrazia economica per dispiegare la libertà dell’impresa privata. Se ne possono definire almeno quattro:

  • un’adeguata biodiversità economica, ossia la compresenza di imprese di diverse dimensioni e forme di conduzione a tutela di un pluralismo democratico, prima ancora che economico, che richiama la foresta composta da alberi diversi, una visione riferibile al grande economista liberale inglese Alfred Marshall;
  • un regime di mercato basato sui principi di leale competizione e su aspetti di collaborazione, non esclusivamente nello scambio di denaro contro beni o servizi, perché sempre riferendosi a una metafora biologica, il sistema capitalistico cresce non solo attraverso la “selezione dei migliori”, ma anche con una “cooperazione virtuosa”, ossia sulla simbiosi che è un altro dei grandi paradigmi dell’evoluzione;
  • il ruolo generativo del lavoro, perché nella nostra esperienza storica l’impresa nasce dal lavoro organizzato, e nei casi di maggiore successo, lo valorizza adeguatamente. Recentemente l’economista di Harvard Dany Rodrik (proprio l’Università contrastata dal rigurgito neoliberista-populista dell’Amministrazione Trump) ha sostenuto che per avere un sistema capitalistico inclusivo occorre assicurare un numero elevato di good jobs, ossia di posti di lavoro capaci di sostenere una classe media prospera e in crescita. E all’interno del “lavoro buono” una particolare attenzione va all’utilizzo di tecnologie che siano friendly, cioè capaci di assicurare un miglioramento della produttività aziendale senza però mortificare le capacità professionali, ma anzi sviluppandole adeguatamente secondo una logica evolutiva e creativa;
  • un adeguato capitale di fiducia, ossia un sistema di relazioni tra i diversi partecipanti al mercato verso le istituzioni di un paese che è la condizione indispensabile perché ci sia uno sviluppo nella pienezza dei significati qualitativi di questo termine. Un aspetto che richiama un’economia fatta di persone e non solo di mercati anonimi e speculativi.

L’aspetto del lavoro creativo e della fiducia ripr opongono la questione dei “valori” ossia delle credenze condivise nella società che stimolano un atteggiamento cooperativo e spingono verso un mutuo beneficio dello stare insieme. Questi valori sono una vera e propria forma di capitale civile, che richiama al buoncostume e alla fede pubblica di cui già a metà del 1700 l’abate Antonio Genovesi aveva scritto a proposito della costituzione di una economia civile più umana e attenta alla reciprocità.

Un capitalismo imprenditoriale civile pone al centro il tema dei valori e soprattutto quello della dignità umana, nel lavoro come nell’impresa e ricompone la relazione tra capitale di idee e capitale fisico/tecnologico. Un capitalismo di questo tipo si è diffuso in molti dei nostri territori, soprattutto dove esisteva una tradizione di partecipazione civile più forte, ed ha rappresentato l’ossatura dei distretti industriali di piccola impresa.

Ma oggi vediamo il rischio concreto che ne vengano vanificati i principi, attraverso il “consumo dei valori” sostenuto da un approccio conflittuale verso gli altri che, dinanzi a una crescente incertezza sul futuro, identifica nemici da combattere piuttosto che delineare delle opportunità e favorire una intraprenditorialità positiva e aperta al confronto.

I modelli che ci vengono da oltreoceano non aiutano, anzi comportano un fortissimo aumento della disuguaglianza e delle sperequazioni e per il Premio Nobel dell’Economia Joseph Stiglitz “La disuguaglianza estrema mina la coesione sociale e la fiducia nelle istituzioni, rallenta la crescita economica e minaccia la stabilità democratica”.

Perciò un capitalismo più equo e civile è una condizione per salvaguardare un genuino sistema democratico e, in sintesi, una garanzia per tutto il nostro sistema costituzionale.



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