Nel 2025 un’impresa italiana su tre ha già assunto o prevede di assumere lavoratori nati fuori dall’Unione Europea entro il 2026, spinta da una carenza cronica di personale specializzato che riguarda oltre il 70% delle aziende. Secondo il consueto autorevole report di Unioncamere e del Centro Studi Tagliacarne, il 73,5% delle imprese segnala difficoltà a reperire lavoratori italiani, soprattutto per quanto riguarda gli operai qualificati e i tecnici. Nel Nord Est la quota di aziende pronta a guardare fuori dall’Europa per le assunzioni sale al 36,5% con Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino Alto Adige in testa. È un segnale che apre a scenari inediti, come quella ipotizzata dal presidente di Unioncamere Andrea Prete: attrarre giovani italiani di seconda e terza generazione dal Sud America, un bacino di oltre 30 milioni di persone con legami storici e culturali con l’Italia. “L’Italia comincia ad avvertire gli effetti dell’invecchiamento della popolazione dovuto alle dinamiche demografiche”, spiega Prete. “I lavoratori immigrati sono quindi sempre di più una risorsa indispensabile per far fronte alla domanda di occupazione delle imprese. C’è anche un bacino di italiani di seconda o terza generazione che vivono soprattutto nel Sud America al quale il nostro Paese dovrebbe guardare con attenzione. Si tratta spesso di giovani con competenze già consolidate e con un legame di lingua e di storia familiare con l’Italia, che potrebbero essere interessati a trasferirsi nel nostro Paese”.
A guidare la corsa per la manodopera oltreconfine è il Nord Est: il 36,5% delle imprese, con punte del 39,1% in Trentino-Alto Adige/Südtirol e 37,6% in Veneto ha già aperto le porte ai lavoratori extra UE o lo farà a breve. La figura più richiesta è l’operaio specializzato (47,1%), seguito da operai generici (32,6%), lavoratori del terziario (13,3%), artigiani (11,1%) e specializzati (9,3%) e manager (1,1%). Numeri che mostrano un paese che non può permettersi di far fermare la filiera metalmeccanica, logistica, agroalimentare. Sono settori settori che da soli valgono gran parte dell’export italiano e che oggi faticano a trovare lavoratori specializzati e competitivi.
Il calo demografico è uno dei nodi principali. Ma non è l’unico motivo che spinge le aziende a guardare altrove. Istituti professionali e tecnici orientati a formare giovani studenti su professioni manifatturiere e del terziario spesso non dialogano davvero con le aziende. Secondo un report di Confindustria solo un terzo delle aziende che hanno difficoltà a reperire personale (28,5%) partecipa a iniziative educative curricolari come gli ITS Academy e percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (PCTO). La formazione richiede tempo e risorse e il sistema educativo con i suoi programmi camaleontici e sperimentali non riesce ancora a fornire lavoratori inseribili in azienda. Al tempo stesso sono scuole che viaggiano su un confine labile: formazione professionale e formazione cittadina. Non possono diventare semplici officine di personale pronto all’uso. Ma i lavoratori servono adesso, non è un problema rimandabile alle tempistiche delle riforme sull’istruzione. Da qui la necessità di trovare all’estero ciò che l’Italia non riesce a dare.
Puntare sui discendenti italiani in America Latina può sembrare una soluzione efficace. Sono lavoratori che già hanno la cittadinanza e che possono permettere alle imprese di accedere ad una serie di incentivi e sgravi contributivi come il bonus per l’assunzione di giovani under 30, che prevede un esonero contributivo pari al 50% della retribuzione mensile imponibile ai fini previdenziali fino ad un massimo di 3.000 euro. Lavoratori con permesso di soggiorno, anche se nati e cresciuti in Italia da genitori stranieri, non permettono alle aziende di richiedere questi vantaggi. Una contraddizione che finisce per premiare chi arriva dall’altra parte del mondo, a scapito di chi vive qui da sempre ma resta invisibile sul piano burocratico.
Non è scontato che i discendenti di seconda e terza generazione abbiano conservato legami linguistici e culturali con il nostro paese. In molti casi l’italiano è una lingua tramandata dai nonni, l’Italia un paese che vive nei racconti dei parenti. L’integrazione sociale e culturale non è immediata, e il rischio è che la promessa di un rientro alle radici si scontri con le difficoltà che i lavoratori immigrati con permesso di soggiorno già vivono. Infine resta la questione dell’equipollenza dei titoli di studio e dei profili professionali. Un saldatore o un tecnico che si è formato a San Paolo o a Buenos Aires potrebbe non avere un percorso immediatamente compatibile con gli standard italiani: in un mercato che ha bisogno di operai “pronti oggi”, l’attesa per omologare diplomi o frequentare percorsi formativi potrebbe diventare un freno concreto.
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