Opinioni | Cambiare per rilanciare la Ue

DiAdessonews

Lug 6, 2025 #accogliere, #accordi, #adesione, #aiuto, #alcune, #alleanza, #alleanza atlantica, #Altra, #altrettanto, #America, #americana, #americane, #americani, #Americano, #amministrazione, #amministrazione americana, #Antichi, #anzi, #Anziché, #Articolo, #Assetto, #atlantica, #atlantici, #atlantico, #atteggiamento, #atto, #avviare, #aziende, #Azione, #baltico, #barriere, #base, #basi, #bensì, #Berlino, #bretagna, #Brexit, #Bruxelles, #caduta, #Cambiamenti, #Cambiamento, #cambiare, #cambiare rapidamente, #capacità, #Capitale, #carenza, #Cina, #cinesi, #cittadini, #collettiva, #commisurato, #commisurato pericoli, #commisurato pericoli minacciano, #compito, #Comune, #comune commisurato, #comune commisurato pericoli, #concentrarsi, #consegnato, #consentirà, #contare, #continente, #continuare, #conto, #Contributo, #cooperazione, #creare, #creativo, #creativo comune, #creativo comune commisurato, #Creazione, #crescita, #crisi, #criticità, #cuore, #Dati, #dazi, #debito, #decenni, #decennio, #decisionali, #decisionali europei, #dibattito, #Dichiarazione, #dichiarazione schuman, #difensiva, #difesa, #difesa intelligence, #difesa sicurezza, #difficile, #digitale, #dipendenza, #DISTACCO, #dollari, #dollaro, #dollaro moneta, #dovranno, #dovrebbero, #economica, #economiche, #ENERGIA, #energie, #equivalente, #esclusivamente, #esiste, #esistenti, #Essenziale, #euro, #euro digitale, #europa, #europa america, #europa grado, #europea, #europee, #europei, #europeo, #far, #finora, #Fondi, #forte, #fossili, #francese, #francia, #garantire, #garantire pace, #garantire pace sforzo, #generazionale, #Germania, #gestire, #globale, #grado, #gran, #gran bretagna, #gravissima, #impegni, #imprescindibile, #indebolito, #indietro, #Indipendenza, #industriale, #infinità, #influenza, #iniziative, #innovazione, #innovazioni, #integrazione, #integrazione economica, #integrazione europea, #intelligence, #interessi, #Internazionale, #interno, #introdurre, #investimenti, #istituzioni, #istituzioni europee, #leader, #leader europei, #Libera, #livello, #lunga, #maggiore, #meccanismi, #meccanismi decisionali, #membri, #Mercati, #mercato, #mercato unico, #Metter, #mettere, #migliori, #militare, #minacciano, #Ministri, #mondiale, #Moneta, #morbido, #morire, #nato, #né, #né tantomeno, #nord, #normative, #nucleare, #numero, #nuova, #nuove, #nuovi, #nuovi membri, #occasione, #occorre, #Oceano, #offerto, #opinioni, #or, #ormai, #ovvero, #pace, #pace sforzo, #pace sforzo creativo, #Paesi, #paesi polonia, #Pensare, #perdurare, #pericoli, #pericoli minacciano, #pesantemente, #politica, #politiche, #politico, #polonia, #possano, #POSSONO, #potere, #potere forte, #potrà, #potrà garantire, #potrà garantire pace, #prese, #presidente, #prevedere, #PREZZI, #Prezzo, #processi, #processi decisionali, #punto, #Putin, #quei, #Questione, #Rafforzare, #rapidamente, #Rapporti, #Regno, #regno unito, #resta, #rilanciare, #rilevanti, #risorse, #ruolo, #RUSSIA, #scelte, #senso, #settore, #settori, #sforzo, #Sicurezza, #sin, #specie, #Strategica, #strategico, #sviluppo, #tantomeno, #tecnologia, #tempi, #Termine, #Trump, #UCRAINA, #ue, #Unico, #Unione, #Unione Europea, #Uniti, #Unito, #vantaggio
Opinioni | Cambiare per rilanciare la Ue


«Si potrà garantire la pace nel mondo solo attraverso uno sforzo creativo comune, commisurato ai pericoli che la minacciano».

Queste precise parole furono le fondamenta sulle quali venne edificata l’Unione europea settantacinque anni or sono




















































Tra le rovine della Seconda guerra mondiale, la Dichiarazione di Schuman – che invocava l’interdipendenza economica tra gli antichi stati rivali – avviò un continente devastato verso una nuova epoca di pace e di stabilità economica senza precedenti. Così prese inizio un progetto che avrebbe chiamato a raccolta decine di paesi e mezzo miliardo di persone per condividere un unico mercato, un’unica moneta e un’unione politica, in quella che è stata la più audace innovazione democratica transnazionale dei nostri tempi.

Ma oggi l’Europa deve affrontare tutta una serie di criticità, vecchie e nuove: una Russia aggressiva ed espansionista, un’America sempre più indifferente e ostile, nonché il perdurare di carenze nell’assetto politico ed economico al suo interno. Tutte insieme, queste problematiche minano le basi economiche e la sicurezza che sostengono la democrazia e la prosperità europee. Per restare forte, libera e indipendente, l’Europa deve nuovamente raccogliere attorno a sé quelle energie creative capaci di fronteggiare i pericoli che la minacciano. In sostanza, si tratta di reinventare l’Unione europea stessa, con un impegno generazionale condiviso: mettere in atto tutte le iniziative di potere «morbido» e di potere «forte»; accogliere nuovi membri, senza timore di lasciar andare alcuni di quelli esistenti; concentrarsi senza ulteriori indugi sulle questioni cruciali, rinunciando a legiferare sugli aspetti meno rilevanti; ristrutturare i suoi meccanismi decisionali, ancora farraginosi; e così facendo, assicurarsi che l’Europa sarà in grado di reggersi in piedi da sola, mentre gli Stati Uniti battono in ritirata.

Tutto questo significa confrontarsi con le nuove realtà di un mondo che cambia sotto i nostri occhi. I mutamenti più rilevanti saranno quelli introdotti dall’amministrazione americana, profondamente arroccata sul vittimismo e pronta a smascherare spietatamente le debolezze dell’Europa. L’America sembra decisa a girare le spalle ai rapporti e alle istituzioni che essa stessa ha contribuito a creare negli anni, diffondendo pace e prosperità da entrambi i lati dell’Atlantico, e tutelando i suoi interessi in patria e all’estero. Inutile pensare che un futuro governo potrà fare marcia indietro: la fiducia e la certezza che erano alla base di quei rapporti e di quelle istituzioni si sono irrevocabilmente disintegrate. Dopo le ultime raffiche di dazi e di insulti, chi potrà mai fidarsi delle tutele garantite dall’Articolo 5 della Nato? Ma soprattutto, chi ci crederà al punto tale da mettere a repentaglio il futuro del suo paese? Anche se un presidente strenuamente pro Nato venisse eletto domani, l’incantesimo si è ormai rotto, perché sì, tale era quella garanzia totale di sicurezza reciproca. Persino i più ferventi sostenitori europei della Nato oggi ammettono che la sicurezza e il benessere del continente non dovranno mai più dipendere dalle bizzarrie di 200.000 elettori in tre stati in bilico sull’altra sponda dell’oceano.

Benché sia impossibile prevedere con esattezza le ripercussioni delle recenti prese di posizione americane, alcune traiettorie sembrano inevitabili: la proliferazione nucleare farà un balzo in avanti, non indietro, quando diversi paesi, dalla Polonia alla Corea e al Giappone, riterranno essere giunto il momento di dotarsi di armamenti nucleari. Gli stati autoritari coglieranno l’occasione propizia per aggredire l’ordinamento liberale internazionale e la Cina sfrutterà ogni minima occasione nel vuoto di potere venutosi a creare dopo l’improvviso voltafaccia dell’America.

Si indebolirà il ruolo del dollaro come moneta globale di riserva, anziché rafforzarsi, specie ora che il governo Trump sembra considerarlo non più un vantaggio, bensì un fardello. E malgrado l’irrazionalità dei tagli voluti da Elon Musk tramite il suo dicastero Doge, non si fermerà lo sperpero di fondi pubblici da parte del governo in carica. Il debito americano diventerà sempre più difficile da gestire, facendo aumentare, e non diminuire, il rischio di una gravissima crisi finanziaria.

Davanti a uno scenario sempre più preoccupante, l’Europa ha capito che il suo imperativo strategico al momento è quello di rafforzare la propria indipendenza. Notevolissimi sono stati i cambiamenti generazionali negli atteggiamenti dei vari stati membri in merito alla difesa. La Germania del cancelliere Merz esce finalmente dall’ambiguità dopo decenni di tentennamenti in politica di sicurezza, e il presidente Macron si è detto disposto ad estendere la protezione dell’ombrello nucleare francese al di là del Reno.

A nord si va aggregando il blocco baltico, che più di chiunque altro, in proporzione, ha offerto il suo aiuto all’Ucraina, mentre la Polonia sta incrementando rapidamente la spesa militare. Degni di nota sono la volontà del Regno Unito di contribuire alle misure di difesa e sicurezza europee, come pure il partenariato delle aziende turche con i produttori di droni europei, e ancora il coinvolgimento del Canada nel rafforzare i rapporti con il continente nel settore militare industriale.

I leader europei di colpo sono pronti ad aprire il confronto su tematiche finora proibite: allentare i cordoni della borsa, accogliere gli scienziati estromessi dagli attacchi del governo americano contro le università, mettere in piedi l’euro digitale per rivaleggiare con le criptovalute denominate in dollari statunitensi, programmare un’europeizzazione della Nato, e reperire nuove alleanze al di là delle frontiere europee. Un continente a lungo sbeffeggiato per la sua timidezza oggi è in fermento con nuove idee e iniziative, pronto a rivedere le restrizioni che hanno pesantemente indebolito le sue difese immunitarie contro i pericoli del passato.

Purtroppo le vecchie abitudini, ahimè, tardano a morire. In troppe capitali europee si avverte ancora la speranza strisciante che la tempesta passerà da sola. Tanti si augurano che la perfidia di Putin convincerà gli americani a cambiare atteggiamento sull’Ucraina, e che l’America saprà dimenticare i decenni di scarsi investimenti europei nella difesa comune. Altri sperano che i dazi stratosferici di Trump verranno limati fino alla radice, e che l’ascesa dell’influenza cinese in Europa, ripercussione strategica diretta della retromarcia americana, incoraggerà un ripensamento a Washington.

La questione aperta, tuttavia, non è se l’Europa vuole cambiare oppure no, ma piuttosto se riuscirà a cambiare e quanto in fretta.

Questo desiderio si scontra con un’altra cattiva abitudine, ancora dura a morire: l’atteggiamento di rivalsa e superiorità dei singoli stati membri all’interno dell’Europa, quando sarebbe imprescindibile avviare un’azione collettiva contro le minacce provenienti dall’esterno.

I dazi di Trump hanno seminato lo scompiglio tra gli stati membri, che fanno a gara, in ordine sparso, per accaparrarsi le condizioni migliori per i propri prodotti, dal vino francese ai farmaci tedeschi, nello sforzo di sottrarli alla scure americana. Il governo Usa, che non nasconde il più profondo disprezzo per le istituzioni europee, non esita a far leva sul «divide et impera», concedendo al Regno Unito uno sconto sui dazi, lusingando il primo ministro Meloni, invocando la profonda lealtà della Polonia all’alleanza atlantica, e via dicendo. Tutte strategie, queste, che hanno lo scopo di erodere le simpatie europee per Bruxelles.

Se resterà prigioniera della sua ingenuità e frammentazione, l’Europa contribuirà direttamente al suo declino terminale: svuotata dall’interno dal fallimento della leadership collettiva, e lacerata dalle forze esterne congiunte e sempre più predatorie di Stati Uniti, Cina e Russia. Le sue istituzioni rischiano di liquefarsi nell’equivalente europeo delle Nazioni Unite, organismi mirabili ma senza alcun peso politico, straripanti di risoluzioni ma sempre meno incisivi nel loro operato tra le vere potenze mondiali. Il sogno di un’Europa libera, forte e unita rischia di spiaggiarsi miseramente sotto l’azione di quei nazionalismi, protezionismi e conflitti di potere che si era proposta di superare sin dalla sua nascita. Ma un’alternativa esiste. Le esitazioni e le lungaggini che travagliano l’Europa, ostacolandone i progressi, sono spesso state causate non solo dalle crisi, ma anche dalla carenza di programmazione strategica. La lentezza dei meccanismi di governance europea – e la difficoltà nel tener conto dei più disparati interessi – di solito sfocia in processi decisionali letargici.

La storia ci ricorda che l’Europa è capace di scelte coraggiose quando viene messa alle strette. I contraccolpi della crisi del petrolio degli anni Settanta furono la spinta necessaria verso una maggior integrazione economica, tra cui la creazione del mercato unico. Meno di diciotto mesi dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, l’ex Germania dell’est entrò nell’Unione europea come parte della Germania riunificata, e i negoziati per il trattato di Maastricht, la grande conquista generazionale che ha gettato le basi della moneta unica, si svolsero durante il collasso dell’Unione sovietica. Più di recente, la pandemia ha stimolato la creazione di strumenti di debito tra i più rilevanti su scala europea, mentre l’invasione russa dell’Ucraina ha accelerato la cooperazione nel settore della difesa e dell’intelligence.

Pertanto, in linea con i sussulti esasperanti dell’integrazione europea, potrebbe darsi che questo shock – ben più grave, geopoliticamente, di quello del 1989 o persino del 2008 – sarà ancora una volta foriero di cambiamenti radicali. Torno a ripetere, non si tratta di vedere se l’Europa vorrà cambiare, ma se lo farà rapidamente e in modo radicale.

La verità è che l’assetto istituzionale dell’Europa di oggi non è più in grado di rispondere alle attese. Le istituzioni di Bruxelles avevano il compito di gestire le normative di un’era ormai scomparsa. L’Ue deve essere cablata a nuovo per esercitare un potere forte, non esclusivamente morbido, e per concentrarsi soprattutto sulle criticità strategiche che minacciano il continente.

Venticinque anni or sono, quando ero parlamentare, ho pubblicato un articolo intitolato «Fare di meno per ottenere di più», in cui invocavo lo snellimento dei processi decisionali europei. Era chiaro, sin da allora, che «l’Ue si occupa di un’infinità di settori nei quali il suo intervento non è essenziale, né tantomeno necessario, mentre in altri ambiti, specie la sicurezza interna ed esterna, si lamenta una tragica carenza di vera integrazione». Questo sperpero di risorse limitate – tempo, attenzione e capitale politico – è andato purtroppo aggravandosi negli anni successivi.

Occorre metter fine alla miopia che affligge i processi decisionali europei, specie oggi che ci si ritrova stritolati da veri e propri movimenti tettonici. (Ricordiamo tristemente che ci sono voluti trent’anni per arrivare a una definizione del cioccolato.) Le istituzioni europee dovrebbero abbandonare gran parte dei loro impegni attuali – dalla gestione delle sovvenzioni agli agricoltori all’elaborazione delle politiche del turismo – per focalizzarsi esclusivamente sulle priorità esistenziali: difesa, energia e innovazione.

Cominciamo dall’innovazione: non esiste esempio migliore della propensione europea all’autolesionismo, anziché all’autodeterminazione, che la normativa sulla tecnologia, dove l’Europa ha preferito imporre restrizioni al progresso tecnologico delle principali aziende americane e cinesi, piuttosto che agevolare l’intraprendenza dei suoi innovatori. Incredibile ma vero, il mercato unico digitale europeo non esiste ancora all’atto pratico. Il suo ecosistema tecnologico resta balcanizzato da un’infinità di vincoli nazionali e regionali, oltre alla protezione dei dati e ai requisiti di licenza. Il capitale di crescita è tuttora pesantemente limitato, se paragonato agli Stati Uniti. Durante un mio soggiorno a Silicon Valley, sono rimasto colpito dal danno che questo provoca inutilmente allo slancio innovativo in Europa. Chiedete a qualsiasi imprenditore digitale ad Atene, Lisbona o Berlino, se è più difficile introdurre sul mercato europeo le loro innovazioni rispetto alla concorrenza, che ha accesso ai vasti mercati interni americani e cinesi. L’incapacità di capitalizzare sul vantaggio competitivo dell’uniformazione ha un costo drammatico: se tutte le proposte degli ultimi anni sulle potenzialità del mercato unico fossero state attuate da Bruxelles, oggi il continente non lamenterebbe la sua arretratezza.

Occorre inoltre dar seguito urgentemente alle prime mosse della Banca centrale europea e dei ministri delle finanze dell’Ue per il lancio dell’euro digitale, che consentirà all’Europa di misurarsi con gli «stablecoin» denominati in dollari emessi dal governo americano. Senza escludere che l’euro digitale possa essere gestito da società private. L’Europa ha perso l’occasione per sfruttare un gran numero di innovazioni tecnologiche recenti e non può più permettersi di continuare a perdere influenza nel sistema globale di pagamenti, specie ora che vengono sollevati interrogativi seri sul ruolo del dollaro come moneta di riserva.

Nel settore energetico, l’Europa non può competere con Cina e Stati Uniti se i suoi prezzi restano strutturalmente più elevati. Nel 2024, i prezzi del gas all’ingrosso nell’Ue erano in media cinque volte più alti di quelli americani, mentre il prezzo medio dell’elettricità per l’industria era all’incirca due volte e mezzo più elevato (nel Regno Unito si sono viste differenze di prezzo ancor più drammatiche). Il continente ha fatto passi concreti per metter fine alla dipendenza dagli idrocarburi importati dalla Russia e per abbattere i costi delle energie non fossili, e si prevede che questi ultimi diminuiranno ancora. Dubito tuttavia che l’Europa riuscirà a spuntare prezzi paragonabili a quelli degli Stati Uniti, che vantano enormi riserve di carburanti fossili, pur tenendo conto degli scarsi investimenti americani nella rete di distribuzione. L’Europa, tuttavia, potrebbe fare molto di più, sia per integrare il proprio sistema elettrico – affrettandosi a costruire i collegamenti attesi da tempo tra Francia e Spagna e nel mare del Nord – sia per gestire la domanda, la fiscalità e le politiche normative durante il processo di transizione verso l’energia pulita

Nella difesa, al di là dell’esigenza imprescindibile di stanziare maggiori risorse – di cui si parlerà in occasione del vertice Nato a giugno – una costellazione di paesi, dalla Polonia al Baltico, dal Regno Unito alla Francia, sono sul punto di firmare nuovi accordi reciproci di pianificazione industriale e operativa. È importante che queste iniziative non vengano sabotate dal dibattito legalistico sul ruolo dell’Unione europea e dei paesi extra europei, alla luce del prezioso contributo offerto dalle industrie britanniche e turche.

La posta in gioco – ovvero l’incremento delle capacità europee man mano che gli Stati Uniti si ritirano dagli impegni atlantici per concentrarsi sullo scacchiere del Pacifico – richiede un approccio del tutto nuovo all’organizzazione della cooperazione in materia di difesa e intelligence.

Ma qui spunta un nuovo dilemma: se le istituzioni e le politiche europee al momento si rivelano in gran parte inefficaci, altrettanto risulta l’appartenenza all’Unione. Non è ammissibile conservare stati membri come Ungheria e Slovacchia che appoggiano la politica imperialistica di Putin. Una cosa sono le normali divergenze tra i vari partner, un’altra, gravissima, è fornire aiuto a un nemico dichiarato dell’Europa intera, pretendendo di continuare a ricevere, allo stesso tempo, i generosi contributi europei che affluiscono nelle casse ungheresi e slovacche. Prima o poi questi paesi dovranno scegliere (oppure gli altri stati membri lo faranno per loro, e i trattati europei prevedono la sospensione del diritto di voto): o restate membri produttivi dell’Unione, oppure uscite. Non è più sostenibile restare in Europa e continuare a fagocitare fondi europei da un lato, e dall’altro a sabotare la risposta europea a Mosca.

Indubbiamente, il cambiamento più rapido alla composizione e al dinamismo dell’Unione europea verrà sollecitato dall’adesione immediata dell’Ucraina. In principio, i leader europei si sono già impegnati in tal senso, sebbene decenni di fallimenti nel processo di adesione della Turchia lasciano intuire che potrebbe trattarsi di tempi biblici. E invece, l’Europa farebbe meglio ad accelerare le trattative. Trump e Putin potrebbero vietare l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, ma non dovrebbero avere voce in capitolo per ostacolare la legittima aspirazione dell’Ucraina a entrare a pieno titolo in Europa. Ci saranno, com’è ovvio, adempimenti tecnici, politici e legali da soddisfare, ma l’Europa avrebbe tutto da guadagnare dalla capacità difensiva e tecnologica dell’Ucraina e dalle sue vastissime risorse naturali (se non rientreranno negli accordi con gli Stati Uniti sulle terre rare). La scelta a favore dell’Ucraina è stata fatta, ora occorre avviare il procedimento di adesione con urgenza. La lezione del Regno Unito lascia presagire quanto possano essere rilevanti le conseguenze di tale decisione.

La follia storica della Brexit ha ormai consegnato al paese il peggio di entrambi i mondi: estromesso dal cuore dell’Europa e costretto a mendicare i favori speciali di Washington.

I ministri britannici continuano a ripetere il solito ritornello, che Londra non è costretta a scegliere tra l’Europa e l’America e che, anzi, il Regno Unito farà da ponte tra i due continenti.

Nel frattempo, i sostenitori della Brexit – incapaci di indicare, a distanza di un decennio, quali sono stati gli effettivi benefici materiali del loro voto – esultano per il fatto che Trump ha concesso al Regno Unito dazi minori rispetto all’Unione europea, quasi che ricevere un pestaggio meno devastante da un prepotente sia segno di chissà quale furbizia politica. La verità, ovviamente, è che la geografia ha scelto per la Gran Bretagna sin dall’alba dei tempi, trovandosi il paese sulla sponda europea dell’oceano, e non quella americana. Senza contare poi il distacco dell’amministrazione americana dai principi chiave della politica estera britannica. Gli scambi commerciali tra Gran Bretagna e Europa sono infinitamente superiori a quelli con gli Stati Uniti, e continueranno ad esserlo fino a che la prossimità geografica rappresenterà il fattore determinante del commercio internazionale.

Se non ora, in un futuro non lontano la natura stessa del distacco del principale alleato atlantico costringerà il Regno Unito a quel passo che finora il suo governo è restio a compiere, ovvero operare una scelta chiara sui suoi interessi strategici. A quel punto, si potrebbe ipotizzare un riallineamento con l’Europa, in una nuova unione di difesa e sicurezza tra Ue e Regno Unito, in cambio della partecipazione degli inglesi all’unione doganale e al mercato unico. Questo accordo potrebbe prevedere nuove barriere sulla libertà di movimento in seno all’Unione europea, dato che il dibattito sulla questione, persino riguardo la zona Schengen, è cambiato notevolmente a seguito della Brexit. Per l’Europa, si sanerà una frattura che ha gravemente indebolito l’Ue. Per il Regno Unito, non si tratterà di un ritorno alla vecchia Ue, bensì della riaffermazione del legittimo posto del paese nel cuore di un’unione profondamente rifondata, con entrambe Ucraina e Gran Bretagna in veste di nuovi membri. Una simile iniziativa, mentre l’America volta le spalle ai suoi antichi alleati in Europa, potrebbe contare su un sostegno popolare straordinario.

Occorrerà come minimo un decennio per riconciliare con successo queste sfide sovrapposte, che sono: la riforma dei meccanismi decisionali; lo sviluppo di nuove capacità; l’autorevolezza difensiva e strategica, e non solo diplomatica; la costruzione di una nuova autonomia staccata dagli Stati Uniti; e infine la riorganizzazione degli stati membri e la ridefinizione dei loro ruoli in Europa. Il superamento degli accordi Bretton Woods non si farà dalla sera alla mattina, e pensare di attuarlo in un continente traballante, dove i vari stati membri tirano in direzioni opposte, non sarà un compito facile o indolore, né tantomeno immediato. Ma si dovrà – e si potrà – portare a termine.

Per fortuna, le cose possono cambiare rapidamente con l’impiego di alcune leve. Rafforzare il capitale di rischio completando finalmente l’unione dei mercati di capitale costituisce una vera opportunità, che consentirà agli europei di mettere a frutto i loro risparmi contribuendo alla crescita della competitività e dell’indipendenza europee, e offrirà alla nuova generazione di imprenditori un motivo valido di continuare a produrre nel proprio paese. Spazzar via le restanti barriere al mercato digitale unico, per far sì che le start-up europee possano espandere i loro servizi, è semplicemente una questione di volontà politica. Altrettanto lo è trasformare il numero, per ora esiguo, di europei che tornano dall’Asia e da Silicon Valley in una valanga di rientri dei cervelli espatriati, grazie ai giusti incentivi fiscali alle start-up e all’immigrazione. Una politica di accoglienza, per gli scienziati in particolare, è davvero cruciale.

Ciò comporterà un progressivo distacco dalla pesante dipendenza dalla tecnologia americana, specie in settori critici come l’infrastruttura cloud. È il semplice buon senso a dettare che imprese e governi dell’Ue non facciano affidamento alle piattaforme esistenti per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, soggette come sono alle normative statunitensi sulla vigilanza dei dati.
Il governo americano non assoggetterebbe mai i suoi cittadini ai meccanismi di sorveglianza incorporati da aziende straniere nei loro stack tecnologici, e tantomeno l’Europa. La stretta collaborazione nei settori di importanza strategica è tra i principi fondanti dell’integrazione europea. Da questa consapevolezza sono nate Euratom e la Comunità europea del carbone e dell’acciaio negli anni Cinquanta, precursori dell’Unione stessa. L’equivalente strategico di oggi si chiama tecnologia, specie l’IA. Metterla al sicuro contro le intrusioni straniere grazie a infrastrutture sovrane locali e al sostegno al software open source potrebbe provocare qualche disservizio temporaneo, ma resta essenziale per l’indipendenza a lungo termine dell’Europa.

L’Europa può giocarsi le sue carte migliori. Non sarà mai uno stato unitario come gli Usa, con una lingua comune e un mercato interno pienamente strutturato, né un’economia pianificata come la Cina, con un unico obiettivo strategico che detta le sue scelte economiche. Ma l’Europa ha cento milioni di abitanti più degli Stati Uniti, un PIL paragonabile, a parità di potere d’acquisto (anzi, maggiore se si tiene conto del Regno Unito), le città più vivibili del pianeta, produzioni industriali di altissimo livello, tra cui la litografia in silicone e macchine utensili di precisione, per non parlare poi dei settori farmaceutico, biotech, chimico e aerospaziale, veri leader a livello mondiale. I suoi cittadini oggi raccolgono i frutti di decenni di investimenti, e per la grande maggioranza possono godere di una vita lunga, libera e in buona salute, in seno a società democratiche. Questo è stato possibile grazie alla generosità di altri paesi, specie gli Stati Uniti, le cui garanzie di sicurezza hanno favorito lo sviluppo sociale europeo, ma anche grazie al forte attaccamento, nel periodo postbellico, ai cosiddetti valori europei.

La situazione in cui si trova oggi l’Europa stimola un’ineluttabile presa di coscienza, ed è, questo, un vantaggio da non sottovalutare. Siamo nel bel mezzo di un profondo rimodellamento della forma stessa dell’Occidente, un cambiamento altrettanto radicale come la caduta dell’Unione sovietica. In quanto sostenitore convinto dell’Alleanza atlantica, sono dispiaciuto nel vedere che molti europei oggi considerano l’America come una minaccia esistenziale, un concetto impensabile quando ero alla testa di un partito e primo ministro britannico. In quei giorni, nessuno metteva in dubbio la forza e l’integrità dei rapporti atlantici. Ma il governo americano ha fatto le sue scelte e impostato una rotta diversa, e non ha senso lamentarsi: oggi il nostro compito fondamentale è moltiplicare gli sforzi, a breve e lungo termine, per garantire l’indipendenza dell’Europa. In un certo modo, occorre tornare alle origini: i fondatori dell’Unione europea seppero riconoscere che non vi sarebbe stata stabilità politica senza integrazione economica. Quel calcolo di base – stavolta con l’aggiunta di innovazione tecnologica e integrazione per la difesa – resta immutato.

La prima età dell’Unione europea è stata caratterizzata dalla sua improbabile formazione, la successiva dall’allargamento dei suoi poteri. Adesso è il momento di introdurre il terzo atto: assicurare la sua indipendenza. Notevoli sono i rischi che si profilano all’orizzonte, ma tra venticinque anni l’Europa festeggerà il centenario della Dichiarazione di Schuman. Non vi sarà soddisfazione maggiore, nel ricordare quell’evento, che riconoscere il perdurare degli ideali che hanno ispirato generazioni di europei e che ci hanno consegnato un continente e un popolo forti, liberi e indipendenti. Oggi siamo chiamati a fare quello che l’Europa ha fatto tante volte nella sua lunga storia: ricostruire e riformare, perché un’Europa viva e organizzata è ancora in grado di dare alla civiltà il suo contributo indispensabile.

5 luglio 2025 ( modifica il 6 luglio 2025 | 09:50)



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