Intel è al centro di un accordo che potrebbe ridefinire il rapporto tra Stato e impresa nel settore tecnologico. Il 21 agosto, l’amministrazione Trump ha annunciato l’acquisizione di una quota del 9,9% del colosso dei semiconduttori, per un valore di 8,9 miliardi di dollari. L’investimento, realizzato attraverso fondi del Chips Act, è stato presentato come una mossa strategica per rafforzare la leadership tecnologica americana e garantire la sicurezza nazionale.
L’accordo rappresenta una rottura con la tradizione del libero mercato che ha sempre caratterizzato la politica industriale statunitense. Per la prima volta, il governo federale entra direttamente nel capitale di una delle più grandi aziende tecnologiche del Paese, senza però esercitare diritti di governance. Una scelta che ha sollevato entusiasmi e critiche, e che apre interrogativi sul futuro delle relazioni tra pubblico e privato nel comparto tech.
Intel e Chips Act: da incentivi a partecipazione diretta
Il Chips and Science Act, approvato nel 2022, aveva già segnato un cambio di passo, stanziando oltre 50 miliardi di dollari per rilanciare la produzione nazionale di semiconduttori. Ma con l’accordo Intel, si passa da una logica di incentivi a una partecipazione diretta dello Stato nel capitale delle imprese strategiche.
Secondo quanto riportato da Intel, l’investimento pubblico sarà utilizzato per accelerare un piano industriale da oltre 100 miliardi di dollari in nuovi impianti produttivi negli Stati Uniti. I siti coinvolti includono Arizona, Ohio e New Mexico. Il progetto ha ricevuto il sostegno di big tech come Microsoft, Dell, HP e Aws, che vedono nella rinascita della manifattura americana dei chip un elemento chiave per la resilienza delle supply chain.
Un guadagno per i contribuenti, ma senza controllo
Il governo ha acquistato le azioni Intel a un prezzo scontato del 10% rispetto al valore di mercato, generando un guadagno teorico di 1,9 miliardi di dollari per i contribuenti. Tuttavia, come sottolineato da Fortune, l’investimento è “passivo”: non prevede diritti di voto, né meccanismi di profit sharing o claw-back.
Questo significa che, in caso di successo industriale, lo Stato non avrà strumenti per orientare le scelte strategiche dell’azienda. Una scelta che ha suscitato perplessità tra analisti ed economisti, preoccupati per l’assenza di garanzie sull’interesse pubblico. Wired parla di “scommessa politica”, mentre Reuters osserva che “Trump non ha salvato Intel, ha solo comprato tempo”.
Le critiche: fine del libero mercato o nuovo modello?
L’intervento diretto dello Stato in Intel è stato definito da Msn come una “rottura con le tradizioni americane di libero mercato”. Il rischio, secondo molti osservatori, è che si apra la strada a favoritismi politici e a una distorsione della concorrenza. Se il governo può investire in Intel, perché non farlo anche in altre aziende strategiche?
D’altra parte, i sostenitori dell’accordo lo vedono come una risposta necessaria alla competizione globale con la Cina, che da anni sostiene massicciamente le proprie aziende tech. In questo contesto, l’intervento pubblico non sarebbe una deviazione, ma una correzione di rotta per garantire la sovranità tecnologica americana.
Intel tra rilancio e sfide industriali
Per Intel, l’accordo rappresenta un’opportunità cruciale per rilanciarsi dopo anni difficili. L’azienda ha perso terreno rispetto a concorrenti come Tsmc e Samsung, e ha bisogno di capitali per recuperare il gap tecnologico. L’ingresso del governo nel capitale rafforza la posizione dell’azienda, ma aumenta anche la pressione per rispettare le promesse di rilancio.
Implicazioni per l’Europa e per la banda ultralarga
L’accordo con Intel avrà inevitabili ripercussioni anche sul piano internazionale. L’Europa, che ha lanciato il proprio European Chips Act, si trova ora di fronte a un modello americano più aggressivo e interventista. La competizione per attrarre investimenti produttivi si fa più intensa, e i governi europei potrebbero essere spinti a rivedere le proprie strategie di sostegno all’industria dei semiconduttori.
Inoltre, l’espansione della capacità produttiva di chip negli Stati Uniti avrà un impatto diretto sulle reti di nuova generazione, inclusa la banda ultralarga, che dipende da componenti avanzati per garantire prestazioni elevate.
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