Le cause del declino industriale europeo. Un dibattito che non decolla


di ANTONIO GOZZI

Con molta lentezza e fatica sta avanzando un dibattito sulle cause del declino economico europeo ed in particolare sulle ragioni che in poco più di 20 anni hanno condotto l’industria del nostro continente a perdere il passo e a distanziarsi sempre di più, in termini di dimensione, innovazione e crescita, dai sistemi industriali delle due grandi aree economiche concorrenti, USA Cina.

La reticenza e la lentezza del dibattito dipendono dal fatto che la cultura dominante, il main stream delle classi dirigenti europee, siano esse politiche o tecnocratiche, è riluttante a riconoscere gli errori commessi e ad ammettere la presunzione che ci ha condotto alla difficile situazione odierna.

La stessa vicenda dei dazi, che ha palesato le difficoltà europee nella trattativa con gli USA, mostra un’evidente debolezza nostra nei rapporti di forza con il partner d’oltre atlantico, dovuta al fatto che gli USA sono molto più importanti per noi di quanto noi lo siamo per loro; e che l’Europa non ha quasi in nessun campo un vero leverage, se non, come giustamente ricordato da Bini Smaghi dalle pagine de ‘Il Foglio’, quello della produzione di aerei e di loro componenti, che sono estremamente necessari anche alle industrie statunitensi del settore.

Al contrario la Cina, forte della sua impressionante crescita industriale e di alcune risorse chiave per l’industria americana come terre rare e microprocessori, ha tenuto testa al confronto sui dazi meglio di noi.

Ancora una volta dobbiamo comprendere che sono i rapporti di forza reali a determinare l’evoluzione del mondo, tanto più in questa fase caratterizzata dallo sconvolgimento del paradigma della globalizzazione e di molti dei suoi assunti fino a ieri ritenuti dai più ineluttabili e immutabili.

Nel dibattito sul declino economico ed industriale europeo si sentono voci autorevoli che ne addebitano la responsabilità esclusiva all’egoismo degli Stati membri e alla loro indisponibilità a cedere all’Unione Europea quote di sovranità, il che avrebbe impedito il lancio di vere politiche europee in vari campi compreso quello industriale.

Non condivido questo giudizio, nato dalla cultura astratta e retorica del main stream che immagina un’Europa inesistente, un’Europa stato federale, che in realtà non ha mai visto  la luce. Questa impostazione e questa cultura rifiutano di prendere realisticamente atto che l’assetto attuale fatto di 27 Stati nazionali, con lo spessore di storie patrie che vengono da lontano, di interessi diversi e spesso divergenti, di lingue e culture differenti, è piuttosto quello di una confederazione di stati nazionali, che dovrebbero affidare alla Commissione europea soltanto l’attuazione di accordi intergovernativi e impedire alla tecnocrazia guardiana di Bruxelles di arrogarsi un potere enorme e autoreferenziale che non ha alcuna legittimazione democratica.

Il ripetere come un mantra “più Europa più Europa” non risolve le gravi questioni dell’oggi ed anzi, vista l’incapacità dell’Unione di risolvere gli enormi problemi che abbiamo dinanzi, rischia di trasformarsi in un boomerang debilitando la reputazione dell’istituzione presso le opinioni pubbliche europee, come dimostra la crescita senza sosta di populismi e estremismi politici di destra e di sinistra.

Inoltre, l’assunto che la mancanza di politiche industriali europee negli ultimi 20 anni dipenda solo dagli egoismi nazionali e non da scelte e decisioni dell’Unione Europea e della sua Commissione non risponde a verità.

Si pensi ad esempio al dilagare e all’imperare di una cultura di mera e astratta tutela della concorrenza e dei consumatori che ha impedito la nascita – come denunciato da Draghi nel suo Rapporto – di campioni industriali europei capaci di tenere testa ai giganti americani e cinesi. Negli ultimi venti anni, e in particolare negli ultimi dieci (si veda l’azione dell’intransigente e ideologica Commissaria alla concorrenza, la danese Margrethe Vestager) tutte le volte che un’impresa raggiungeva la quota del 45% del mercato interno veniva ex lege bloccata nella sua crescita. Si sono commessi così errori clamorosi, perché non si è capito che in moltissimi campi la competizione non era più europea ma mondiale, e quindi si sarebbe dovuto consentire alle imprese del nostro continente di affrontare questa competizione con le dimensioni necessarie. 

Inoltre l’Europa, sempre applicando la sua ideologia consumerista e di austerità ha impedito e sanzionato aiuti di Stato alle imprese, facendo finta di non vedere che la crescita e l’innovazione tecnologica dei sistemi industriali americani e cinesi è sostenuta negli USA dalla gigantesca domanda militare (si calcola che il Pentagono ogni anno riversi sul sistema industriale americano più di 800 miliardi di USD di domanda che trascina l’innovazione in tutti i settori strategici) e in Cina   da gigantesche sovvenzioni statali a tutti i settori industriali di punta.

E ancora: l’Europa con la sua iper regolamentazione e l’estremismo del green deal ha creato un ambiente sfavorevole agli investimenti industriali specie, ma non solo, nei settori di base, come testimonia la caduta verticale negli ultimi anni degli investimenti stranieri nel nostro continente, ormai percepito come un ambiente non più business friend. 

Si pensi ad esempio al sistema ETS e cioè alla tassa carbonica. Oggi è un balzello che nessuna area al mondo ha, almeno non in dimensioni paragonabili a quelle europee; poiché colpisce anche le centrali elettriche a gas che determinano il prezzo dell’energia elettrica in Europa, oggi rappresenta un aggravio di costo di 25-30 euro per Mwh che incide duramente sulla competitività delle industrie europee. È un sistema che andrebbe abolito ma nessuno ha il coraggio di parlarne.

Se vogliamo avere ancora qualche chance di non essere travolti dall’impetuosa crescita degli altri (e tra un po’ arrivano anche gli indiani) bisogna coraggiosamente cancellare molte delle norme e regolamenti scaturiti dall’era Timmermans, e bisogna favorire aggregazioni industriali europee, soprattutto ma non solo nei settori di punta, che siano capaci di reggere e di imporsi nella competizione internazionale. E questo è uno sforzo complesso e difficile per la stessa natura dell’Europa; perché per trovare soluzioni percorribili e accettabili occorre rispettare equilibri politici, economici, industriali e sociali tra gli Stati nazionali. Ciò comporta lunghe e complesse trattative e mediazioni, ma se non si rispettano questi equilibri le aggregazioni non si fanno.

Questa è la sola via realistica e di buon senso per un’Europa possibile. La retorica di un’Europa che non c’è ma dovrebbe esserci, la presunzione di essere sempre i migliori, la pervicacia senza senso di continuare ad imporre regole e divieti alle imprese e ai cittadini europei non solo ben presto ci farà perdere senza appello il grosso dell’industria europea con tutte le conseguenze economiche e sociali immaginabili, ma farà anche esplodere lo stesso concetto di Unione Europea rendendola invisa ai popoli e tradendo l’intuizione dei fondatori.



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